Starter, una storia americana
Una serata nella camera del mio amico Swa. Non capite male vi prego. Una serata in camera del mio amico Swa a provare entrambi, letteralmente come due quindicenni, il vastissimo guardaroba di vestiario targato Starter del riccioluto termale di cui sopra, guardaroba rispolverato direttamente dagli anni Novanta. Pezzi d’epoca assoluti, come il giaccone dei Knicks. Quella serata di fitting e risate non può non dare il via a un post sulla storia della Starter e del suo fondatore, roba che solo in America poteva accadere, come al solito. Enjoy.
“Arriva un momento in cui capisci che ormai i cartoni dei Ninja Turtles non fanno più per te. Devi dimostrare agli altri che sei diventato grande, che hai una tua idea di moda, una tua personalità. E per farlo non puoi che indossare un bomber Starter”. E’ una citazione che arriva da un blog sparso per la Rete. Incarna benissimo cosa la Starter Corporation ha significato per noi feticisti dell’abbigliamento Nba nati nella seconda parte dei Settanta. Cappellini, bomber e in parte minore felpe con i loghi delle nostre squadre Nba preferite. Uno dei primi storici licenziatari dell’Nba in larga scala che ha fatto più volte correre noi fanatici degli sport americani nei negozi specializzati per acquistare capi che abbiamo indossato con un orgoglio difficile da capire per chi non è stato (e non è ora) uno “Starter addicted”.
Tutto ha inizio grazie all’uomo che vedete nella foto sopra. Un mito assoluto, un allenatore di basket, un innamorato della palla a spicchi ma soprattutto uno straordinario e visionario imprenditore. David Beckerman da New Haven, Connecticut, ha capito meglio e prima di tutti, tra gli anni Settanta e Ottanta, che un fan sportivo si sente davvero nella squadra quando indossa i capi della squadra. E che quei capi possono essere così desiderabili da diventare streetwear, moda di strada.
Era il basket ciò che muoveva la sua passione. Al college giocava in tre leghe contemporaneamente. Voleva diventare un insegnante ma quel piccolo giro d’affari che aveva messo su nei tardi Sessanta, giro grazie al quale vendeva giacchetti alle squadre di softball e bowling, lo assorbì subito. Poi la visione e il sogno, avverato, di divenire il licenziatario delle squadre di Major League di baseball. Avvenne nel 1976 e la storia dello streetwear, per tutti noi, cambiò. Dalla Mlb all’Nba alla Nhl: alcuni dei capi firmati starter divennero storici anche in Italia. Il cappellino dei Kings di hockey, il bomber, assolutamente uno dei più grandi must-have di ogni epoca per un maschio adolescente, dei San Francisco 49Ers.
La esse con la stella attraversò Paesi e continenti. I capi delle squadre divenivano “ufficiali” solo quando su di loro veniva applicato il marchio Starter. Tra il 1986 e il 1990 l’esplosione definitiva, che portò la compagnia a fatturare 400 milioni di dollari all’anno. Tra le intuizioni più geniali, la maglia da riscaldamento dei Boston Celtics, prima indossata dai campioni in tv e il giorno dopo da milioni di ragazzini americani. Ma è impossibile dimenticare la produzione dei parka indossati poi a bordocampo dai coach dell’Nfl.
O il mai abbastanza celebrato breakaway jacket, che si indossava come un maglione e che anche Swa ha nel suo guardaroba (in questo caso dei Chicago Bulls). Un brand alla conquista del mondo. Ogni atleta degli sport di squadra americani, in campo o a bordocampo, vestiva la esse con la stella. Starter rimase l’anello di congiunzione tra sport americani e cultura di strada per molto tempo. Cultura di strada significa anche bande e gangster. Il legame era così stretto che, come in vari blog è stato osservato, nei rapporti di polizia e sui giornali, descrivendo fatti di cronaca, la parola Starter stava spesso a indicare il giacchetto o il cappello che l’aggressore o il malvivente indossava. “Chi ha sparato aveva poco più di diciotto anni e indossava un giacchetto Starter blu”, “Un ragazzo con un giubbotto Starter e blue jeans è uscito dalla macchina e ha puntato una pistola contro la vittima chiedendo soldi”, si poteva leggere a metà anni Novanta sui quotidiani di Cleveland o Little Rock.
Sarà forse per questo motivo, ha detto qualcuno, che progressivamente le leghe iniziarono a sganciarsi da Starter? Se fino a metà anni Novanta la società del buon Beckerman divenne una delle icone della cultura americana, da lì in poi arrivò il declino. Il mercato degli articoli sportivi iniziò a saturarsi. Il consumatore pur fedele a Starter si ritrovò bombardato dalle mega-campagne Nike, Adidas e Reebok che piano piano spostarono i gusti dei consumatori e convinsero le leghe stesse ad affidarsi ad altri fornitori.
Il pur fantastico prestigio di avere un capo che anche gli atleti indossavano cominciò ad arrancare rispetto alla qualità e alla fattura dei colossi dello sport. Tra il ’94 e il ’95 poi alcune coincidenze nei calendari sportivi portarono l’hockey a iniziare la stagione nel gennaio ’95 e il baseball a terminare la stagione Mlb poco prima di Ferragosto. Fu una spallata per la stabilità economica dell’azienda, che tra l’altro era stata intanto collocata in Borsa nel ’93.
Nel lento declino gli economisti più scafati vedono più di un errore. C’è chi dice che Beckerman sbagliò nel non voler cercare un’espansione del brand (tipo riconvertirsi nell’abbigliamento da gara senza licenza, come Under Armour) puntando piuttosto sull’estensione del brand, come il nostro David fece, cercando senza successo la strada dell’abbigliamento sportivo per i più piccoli. Alla fine degli anni Novanta Starter era un boccone che attendeva di essere mangiato. Dichiarò bancarotta e fu acquistata per 46 milioni di dollari da un consorzio che comprendeva anche Value City, che potremmo definire come lo “Stefan” degli Usa. Da allora Starter è rimbalzata da una mano all’altra. Acquistata da Nike, Starter è stata poi rivenduta dal baffo nel novembre 2007 alla Iconix.
David ha abbandonato la barca ma sarebbe troppo semplice bollarlo come un imprenditore avventuroso. La sua attività di allenatore di basket di liceo non si è mai interrotta, nemmeno negli anni d’oro, quando per allenare i ragazzi di Hamden Hall, New England, atterrava nel tardo pomeriggio dalle riunioni d’affari in giro negli Stati Uniti per essere in tempo la sera in palestra.
Non bollate David. Ha semplicemente colto l’attimo. L’attimo in cui nacque il legame vero tra streetwear e sport americani. L’attimo in cui un semplice bomber si trasformò in oggetto del desiderio. Colse questa magia prima di tutti, intercettando alla perfezione i miei gusti, quelli di Swa e di qualche altro milioncino di persone. Forse era scritto che Starter avrebbe vissuto solo per un periodo. Ma nei giorni in cui entro negli store Nike o Adidas un pensierino, a volte, va a David. E’ ancora in giro per affari. E’ a capo di Acorn Group, società di intermediazione immobiliare. E’ in giro anche sulla Rete, quindi permettetemi: thank you David, u helped us wearing a dream. Take care.
1 Responses to “Starter, una storia americana”
aaaaia vedi di non fammi passà da frustone èèèè!!
preciso giusto che il breakaway dei Bulls è quello della foto nell’articolo, ma quello nel mio armadio è il ben più raro (specie nell’Italia degli anni ’90) dei Portland Blazers, dè! 🙂
grande Starter, marca dei sogni!! Sarai anche diventata la Legea, ma un tempo eri come 10 nike
Sw